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Da ITIS a TikTok: perché non sporcarci le mani?

Non passa giorno in cui non si leggano sui gruppi social di settore annunci di aziende alla ricerca urgente di personale, meglio se già esperto.

Piegatori, laseristi, saldatori, assemblatori fino a ricerche specifiche di addetti alla piegatura della lamiera di tubi sulle macchine di un determinato costruttore.

 

Girando molte imprese di lavorazione lamiera avverto una sete incontentabile di risorse umane che sfocia spesso in vera e propria frustrazione nel dover rinunciare alle commesse per mancanza di addetti.

 

Ma come è possibile?

Eppure, la narrazione che va per la maggiore sui media e, forse direttamente, una buona parte della convinzione del popolo della rete e della strada è totalmente di senso opposto. Infatti, pare che i giovani abbiano le porte sbarrate all’ingresso del mondo del lavoro e che l’unica soluzione sia la fuga all’estero. Tutto ciò spinge ad una riflessione: quali sono le motivazioni? Quand’è che si è rotto “qualcosa nel sistema” e che ha portato dritti ad una disaffezione generalizzata verso il lavoro manuale se non quando verso il lavoro in senso lato?

 

L’ecatombe post-pandemica della mancanza di risorse umane si è abbattuta su moltissimi settori: dalla ristorazione alla metalmeccanica, proprio quando era il momento di ripartire con slancio ed entusiasmo. Le strumentalizzazioni politiche, poi, non si contano e si va dal “colpa del reddito di cittadinanza” al “i giovani sono stufi di fare gli schiavi”, adottando la solita comoda semplificazione di un problema complesso che lo riduce a una questione di rosso o nero tipica del più ottuso tifo da stadio.

Le ragioni, a mio avviso, sono numerose, molto più complesse e infinitamente più noiose e difficili da risolvere.

 

Partiamo dal lungo e continuo calo demografico che affligge il nostro Paese e non solo: se i figli non li fanno più anche coloro che se ne potrebbero permettere tre o quattro alla fine i nodi vengono al pettine sotto forma di turn-over sempre più aridi.

Ma poi, soprattutto, questo atavico e ingiustificato disinteresse generale verso la tecnica, la pratica e (perché no?) il lavoro manuale. Già ai tempi miei all’ITIS ci educavano velatamente a guardare gli operai dall’alto in basso e, alcuni decenni prima, alla “scuola del lavoro” che frequentò mio padre, classe ‘48, alto Mugello, la promozione a pieni voti spettava solo a chi sapeva bene il francese, mica a chi si esprimeva meglio con la lima, la sega e il trapano a colonna!

 

Questa corsa spasmodica all’emancipazione dallo “sporcarsi le mani” sta forse presentando il conto tutto assieme. Quando ci penso mi torna in mente una frase contenuta nel capolavoro “L’idiota” di Dostoevskij, secondo il quale in Russia ormai tutti sognano un impiego pubblico amministrativo o diventare generale. “Ai nostri giorni manca del tutto la gente pratica e non c’è nessuno che sappia far funzionare le ferrovie.” – vi si può leggere (correva l’anno 1868).

Ma oggi, in un mondo di immagini veloci, sensazioni esagerate, narrazioni iperboliche e ridondanti di successi brucianti e ricchezze infinite da esibire ai frustrati è forse giunto il momento di pensare diversamente.

 

Credo che tutti noi dovremmo investire risorse per raccontare con ogni mezzo la bellezza nascosta del nostro lavoro, la passione che ci mettiamo in ciò che facciamo e le soddisfazioni che è possibile ottenere saltando a piedi pari fuori dal cerchio tentatore dell’autoreferenzialità e abbandonando il frequente aplomb formale da grigio assistente di laboratorio scolastico tutto grafici e procedure.

Il nostro settore merita ascolto per far accendere l’interesse su di sé, ma per essere ascoltati si deve imparare a raccontare. Per lo meno… facciamoci aiutare.

 

E perché no? Un giorno, invece di avere i media intasati di gente che cucina (con relativo boom di iscrizioni alle scuole alberghiere) saremo in grado anche di intrattenere con lo spettacolo di come nascono nella pratica migliaia di oggetti di uso quotidiano.

Dobbiamo prenderne atto: il settore della lavorazione della lamiera non è attrattivo per i non addetti. Non siamo “cool”, non abbiamo “appeal”, eppure, quasi tutti siamo consapevoli che, senza fare alcun rumore, siamo dannatamente fighi.

 

 

CONCLUSIONE

 

In definitiva, se davvero vogliamo invertire la rotta e “salvare” la figura del piegatore della lamiera, dobbiamo cominciare a restituire dignità, curiosità e fascino al lavoro tecnico e manuale, raccontandolo con orgoglio e autenticità. Senza proclami o slogan, né tanto meno le accuse reciproche tra generazioni o schieramenti politici. L’ideale a cui ambire è quello che coinvolge un impegno collettivo, con imprese, istituzioni, scuole e finanche media, per far riscoprire alle persone – giovani e meno giovani – il valore concreto di questi mestieri manufatturieri, la loro capacità di generare benessere, competenza e identità.

 

Se sapremo farlo, forse un giorno avremo più occhi affascinati puntati sulle presse piegatrici e potremo dire di aver contribuito a rimettere in moto non solo le nostre aziende metalmeccaniche, ma anche la percezione sociale di un intero settore che, silenziosamente, tiene in piedi una notevolissima parte del vivere quotidiano di tutti.

 

Articolo editoriale pubblicato sulla rivista Lamiera edizioni Tecniche Nuove Ottobre 2022.

 

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